ST21 Gazette Novembre 2022
WONKA VINTAGE POP
BY GIULIA WONKA
You’re gonna live forever
Irene Cara, voce inconfondibile delle colonne sonore di alcune pietre miliari del cinema, è morta proprio qualche giorno fa, all’età di 63 anni, nella sua casa in Florida. Attrice, cantautrice oltre che interprete e produttrice, ma soprattutto una vera e propria icona generazionale.
Nata il 18 marzo 1959 a New York, nel Bronx, da una famiglia di origini africane, cubane e portoricane, iniziò prestissimo la sua carriera nel mondo dello spettacolo esibendosi in trasmissioni televisive in lingua spagnola, partecipando a concorsi di bellezza e apparendo in numerosi programmi.
Raggiunse la fama nel 1980 grazie al ruolo di Coco Hernandez nel film Fame, in italiano Saranno Famosi, di cui registrò il brano omonimo e parte della colonna sonora (vedi Out Here on My Own, anch’essa candidata agli Oscar, categoria vinta quell’anno proprio da Fame), che raggiunse la prima posizione nelle classifiche di moltissimi paesi e divenne espressione oltre che di una generazione, di centinaia di migliaia di ragazzi che non vedevano l’ora di realizzare i propri sogni nel cassetto. Nel 1983 invece, replicò il successo grazie al brano Flashdance… What a Feeling, di cui era co-autrice e interprete, tratto dalla soundtrack della pellicola Flashdance. Proprio questo, l’anno successivo, le valse un Grammy per la Miglior performance pop femminile e un Oscar come Miglior canzone originale: fu la prima attrice ispano-afroamericana a vincere un Oscar in una categoria non attoriale.
Sia prima che dopo l’apice del successo raggiunto in quegli anni, partecipò a produzioni come Sparkle (il musical sulle Supremes), Radici, Per piacere… non salvarmi più la vita al fianco di Clint Eastwood e Burt Ryenolds, e molti altri, senza trascurare comunque la carriera discografica incidendo diversi album.
Nonostante non ritornò mai al clamore raggiunto all’inizio degli anni Ottanta, Irene Cara resta un simbolo di talento ed emancipazione in un periodo in cui era ancora molto difficile per le artiste non bianche imporsi in televisione e soprattutto a Hollywood. Candidature – e riconoscimenti – a premi come Golden Globe, Grammy e Oscar non sono altro che la prova di un talento indiscusso che l’ha resa un’icona in grado di infrangere barriere e pregiudizi.
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JANET JACKSON REVIEW
BY STRITTI
Finalmente un documentario sulla Regina dell’ R’n’B degli ultimi 40 anni, girato e lavorato per 5 anni insieme alla stessa Janet, dal 2017 al 2022, bambina prodigia come il resto della famiglia in questo documentario si racconta da quando accompagnava i Jackson 5 negli show all’ultima tournée, vita privata e artistica come mai era stata svelata, immagini esclusive e verità finalmente rivelate che chiudono diverse leggende urbane che si aggiravano tra i tabloid.
Ma piu che altro si capisce come sia stata un ispirazione per decine di artiste contemporanee e come abbia demolito barriere razziali e di genere.
Janet è un’artista che ha lottato per essere indipendente e riuscire ad essere rispettata per il suo enorme talento e lavoro avendo un nome importante che è difficile portare sulle spalle.
Una carriera come cantante, ballerina formata da una leggenda come Paula Abdul e come attrice, partita dal Mio Amico Arnold e Fame – Saranno Famosi a Poetic Justice con 2Pac.
Un’artista impegnata socialmente con l’album Rhytm Nation ispirando milioni di donne in tutto il mondo.
Musicalmente innovativa ma con un rispetto per le origini e il buon gusto e grazie ai suoi produttori Jimmy Jam & Terry Lewis dei The Time sono riusciti a definire il genere e creare brani senza tempo con uno stile originale mai banale.
Janet è partita da un Suono indubbiamente Soul/Funk con un pizzico di Pop passando al New Jack Swing e all’R’n’B contemporaneo con delle venature Rock e Sinfoniche, toccando a volte un Soul molto profondo ed ultimamente il Raggaetone ma con un approccio più serio non tenendo conto del mercato di più facile ascolto.
Un Documentario diviso in 4 parti dove sono intervistate decine di artisti, da QTip a Samuel Jackson, da Questlove a Teyana Taylor.
Un Documentario che oltre a descrivere il viaggio non ancora concluso di un Icona Afroamericana è la fotografia di 50 anni di musica e la sua evoluzione.
Quindi per concludere mi sento di consigliarvi queste 4 ore di intense emozioni e capire che ci sono artisti che costruiscono una strada abbattendo barriere e altri la seguono, secondo voi Janet di quale categoria fà parte?
Serie visibile su Sky e NowTV
Dancing with MonnElisa
MOULIN ROUGE, LA GOULUE – HENRI DE TOULOUSE-LAUTREC
BY ELISA PEANO
Proseguiamo il nostro racconto della danza attraverso l’arte con un artista che, seppur contemporaneo al precedente Renoir, racconta una Parigi completamente diversa.
Henri de Toulouse-Lautrec è un uomo che nasce nei ricchi salotti aristocratici, ma decide di trascorrere una vita tormentata e immorale nei quartieri parigini di Montmartre.
Egli nacque ad Albi, nel sud della Francia, da una ricca famiglia nobile di antiche origini. I genitori di Henri il conte Alphonse de Toulouse-Lautrec, un dongiovanni esibizionista ed incline ad ozi e vizi e la contessa Adele, una donna schiva, amorevole e moralista, erano cugini.
Il matrimonio fra consanguinei era una consuetudine dell’aristocrazia francese, questo però causò al figlio la picnodisostosi, una malattia genetica alle ossa di natura ereditaria.
Durante l’adolescenza a causa di questa patologia la madre fu costretta a ritirare Henri dalla scuola per sottoporlo a cure specifiche, ma delle dolorose cadute all’età di quattordici anni gli causarono due fratture ad entrambe le gambe.
Questo portò ad un mancato sviluppo degli arti inferiori, egli infatti aveva il busto di dimensioni normali, ma le gambe molto corte, raggiungeva l’altezza di appena un metro e cinquantadue.
Il pittore fu drammaticamente segnato da questa condizione fisica, anche se spesso ironizzava parlando di sé. Da giovane era solito autoritrarsi in grottesche caricature e parlare in terza persona storpiando il cognome Lautrec in tre-clau, che significa “molto zoppo”, altre volte si autodefiniva “il nano”.
In parte forse anche per le conseguenze della malattia che lo segnavano, decise di allontanarsi dall’ambiente della nobiltà francese per dedicarsi alla pittura.
Si trasferì a Parigi nel 1881 e iniziò a studiare con il pittore René Princeteau, poi frequentò le scuole di Léon Bonnat e Fernand Cormon, dove divenne amico di Émile Bernard e Vincent Van Gogh. In particolare con quest’ultimo Toulouse-Lautrec aveva in comune l’interesse per la rappresentazione dell’autenticità della vita umana. A Parigi incontrò anche Degas, di cui si considerò l’erede ideale, con il quale condivise l’interesse per il disegno e la rappresentazione della figura umana.
Nel 1886 aprì un proprio atelier nel quartiere di Montmartre, un vivace sobborgo parigino, pieno di cabaret, case di tolleranza e locali mal frequentati, sembrava di vivere in un quotidiano spettacolo e ciò rappresentava una continua fonte di ispirazione per l’artista.
Lo stile di vita particolarmente sregolato gli apparteneva, Montmartre era un quartiere in cui tutto era possibile, dove coloro che all’alta società apparivano sconci, brutti e diseredati avevano un ampio spazio e l’artista, sentendosi un emarginato, per via del suo fisico probabilmente, era molto più in sintonia con prostitute, modelle, cantanti sfruttati e le ballerine, che divennero così i principali soggetti delle sue opere.
Toulouse-Lautrec era affascinato dal mondo della notte e dai suoi protagonisti, usava i suoi dipinti per raccontare senza filtri la sottile malattia sociale della sua epoca, contraddistinta dal continuo arricchimento della classe borghese che oscurava l’aumentare della precarietà economica di tutti gli altri.
Racconta con i suoi dipinti la rabbia, la sfrenatezza, il dolore, la fatica di chi riempiva le notti di Montmartre, dipinge le vite difficili e disperate, la fatalità dell’invecchiamento e l’amarezza che le luci di scena nascondevano non appena illuminavano il palco e lo show iniziava.
Lautrec raggiunse la fama soprattutto come cartellonista per locali molto frequentati dove si esibivano le più grandi soubrette dell’epoca, con alcune delle quali ebbe anche delle relazioni amorose. Egli frequentava il famosissimo locale Moulin Rouge, allestito al suo interno con un mulino a vento rosso e noto per le sue ballerine di cancan.
Una delle opere più famose di Lautrec è il Moulin Rouge, La Goulue, un cartellone che rese celebre non solo il pittore, ma dava anche grande lustro al locale stesso, la collaborazione infatti fra il Moulin Rouge e Lautrec fu molto fruttuosa per entrambe le parti.
Il cartellone ritrae in primo piano le due star dello spettacolo dell’epoca: la ballerina di cancan Louise Weber e il ballerino contorsionista Valentin “Le Désossé”.
Il cancan è un ballo francese, capace di trascinare il pubblico attraverso l’entusiasmo delle ballerine, che indossano merletti, culotte e ampie gonne svolazzanti, che agitano ad un ritmo incalzante di musica.
Il movimento del cancan si compone di una sequenza di quattro passi, spesso eseguita da ballerine schierate in fila una accanto all’altra: le ballerine saltellano sul posto, come secondo passo slanciano una gamba, con il ginocchio piegato verso l’alto, poi saltellano sul posto e slanciano la stessa gamba, ma questa volta tesa.
Il cancan nasce negli anni trenta dell’Ottocento proprio al Moulin Rouge con la ballerina Louise Weber, detta la Goulue, che da piccola fiammiferaia presto divenne la ballerina più famosa e pagata a Parigi in quegli anni. Fu proprio Toulouse-Lautrec a ritrarre in quadri e cartelloni pubblicitari le ballerine permettendo dunque a questo nuovo stile di danza di diventare noto al pubblico.
Sono molte le teorie che ruotano attorno alla nascita del cancan, secondo alcuni il nome deriverebbe dalla storpiatura della parola “scandal”, ma la teoria più diffusa sostiene che il termine derivi dal “galop” della quadriglia (una danza francese), mentre secondo altri deriverebbe dall’usanza delle lavandaie di Montmartre che ogni domenica mostravano le proprie gonne per le strade del quartiere.
Il cancan nasce come denuncia da parte delle donne, a cui all’epoca non era neanche consentito mostrare le caviglie, sollevare le gambe in aria mostrandole divenne così un vero e proprio gesto rivoluzionario, era il modo in cui chi per la società di allora non contava nulla sfidava le convenzioni politiche promuovendo una richiesta di cambiamento.
LO SAPEVI CHE..
Perché un sacco di rapper utilizzano il soprannome “LIL”?
Nel mondo della musica rap, tanti artisti si chiamano “Lil”: vi siete mai chiesti il perché?
Lil Wayne, Lil Peep, Lil Pump. Forse non ci avete mai fatto caso, ma ci sono un sacco di rapper che si chiamano Lil. Come mai?
I rapper ci tengono molto all’originalità e alla propria personalità. Nonostante si vestano praticamente tutti uguali, ognuno di loro ha una cosa che lo contraddistingue e che lo rende differente nel mondo dello show business.
C’è però un dubbio che attanaglia tantissime persone: perché molti di loro si chiamano Lil? I genitori avevano davvero così poca fantasia quando li hanno messi al mondo, o già sapevano che sarebbero diventate delle star del rap e li hanno “battezzati” in quel modo?
Ovviamente non si tratta di questo: Lil è un nome d’arte che i rapper scelgono automaticamente una volta iniziata la loro carriera. Sono loro che decidono di chiamarsi in questo modo, a quanto pare davvero poco originale. Ma che cosa significa, qual è il significato di questo suffisso?
Lil, non ci vuole molto a capirlo, significa “little”, ossia piccolo. Può essere riferito all’età o alla statura. Non è sicuramente un suffisso che incute timore, soprattutto nel mondo dei rapper, spesso visti come duri che hanno fatto la vita di strada. A chi fa paura uno “piccolo”? A nessuno. Ma questa è un’altra storia.
Chi siamo noi per sindacare sul loro nome? Senza contare che “Lil” non è nato negli ultimi anni. Lil viene usato dai musicisti da oltre un secolo. I rapper l’hanno ripreso dopo, ma un tempo era utilizzato dai suonatori del blues e del jazz. Nessuno conosce la sua vera origine, la storia della sua nascita. Tutto è avvolto nel mistero. Ma Lil resiste ancora oggi.
Uno degli ultimi a usare questo nome è stato Lil Peep, un rapper deceduto per overdose da droghe e farmaci il 15 novembre 2017. C’è poi Lil Pump, un altro giovanissimo che sta scalando tutte le classifiche musicali e che è seguitissimo, soprattutto negli Stati Uniti. C’è poi Lil Baby, un ragazzo che sembra aver optato per un nome da bambino tenero e carino ma che invece è stato in carcere per tanto tempo. E il grande Lil Wayne ovviamente, uno dei rapper più famosi del mondo e socio di Jay-Z.
Space Horizon Queen
Nell’ambito della residenza a Saint-Ouen, David Pompili ha realizzato “Space Horizon Queen”, un colorato tributo alla regina Elisabetta II, recentemente scomparsa. «Tutto diventa pop, tutto è colore, poesie urbane, mondi e orizzonti che si incontrano, dal presente al futuro.
Un viaggio pieno di emozioni e messaggi, ricco di forme e colori, pois che si scontrano come pianeti impazziti alla ricerca di un nuovo orizzonte», ha spiegato l’artista, nato a Spoleto, nel 1970.
«Lei al centro della scena che vigila sul nuovo mondo e i nuovi orizzonti contemporanei, ma anche icona di stile e di eleganza che tenta di trovare un dialogo con i passanti. E sta lì, tra il vedere e il non vedere, il vigilare e il non vigilare. Che dire? La regina come icona pop c’è!», ha concluso Pompili, che in questa occasione ha lavorato con l’amico artista Holaf: «Lavoriamo insieme da molto tempo e siamo due mondi legati sempre al Pop ma messi in dialogo da esplosioni artistiche».