Skip to main content

DEEPLE#1 Desert Blues in Mali:

Storia di artisti di resistenza

“What you consider blues is a hundred percent African; it is the branches and the leaves of African music.”

Ali Farka Touré

Un mesetto fa mi è capitato di recarmi ad una proiezione cinematografia al Bunker organizzata dall’associazione Renken Onlus (se non la conoscete andate a farvi un giro sul loro sito) perché incuriosita dal

Il nome del film-documentario era Mali blues (2016) e veniva descritto come la storia di alcuni musicisti maliani alle prese con un periodo storico particolarmente teso.

La Repubblica del Mali si trova nell’Africa occidentale, senza sbocco sul mare, tra il deserto a nord e la savana a sud. Si tratta di un ex colonia francese che ha raggiunto l’indipendenza nel 1960. Purtroppo, la sua è una storia di squilibri politici e colpi di stato, due dei quali sono stati molto importanti. L’ultimo è avvenuto il 20 agosto 2020 in un periodo di grande instabilità sociale e si è risolto nominando un triumvirato in attesa di

Il colpo di stato che però ci interessa particolarmente è quello del 2012, guidato da un gruppo terrorista e seguito da una guerra civile e dalla decisione di bandire la musica. Ciò ha significato l’inizio di persecuzioni verso i musicisti ed il divieto di qualsiasi riproduzione musicale. Non sorprende dunque che molti artisti abbiano deciso di lasciare il paese.

Ma perché bandire la musica?

La musica in Mali ha giocato un ruolo sociale e culturale molto importante già a partire dal XIII secolo, e ancora oggi rimane lo strumento comunicativo privilegiato, fatto di tradizione e innovazione, e globalmente riconosciuto come il desert blues.

Inoltre, la particolare storia della musica maliana nasce dalla tradizionale figura dei griots, una sorta di cantastorie e poeti incaricati di mantenere in vita la memoria orale attraverso leggende, storie e racconti, trasmessi tramite il canto e l’uso di strumenti tradizionali come il balafon (simile allo xilofono) e lo ngoni (tipico strumento a corde). I griots avevano dunque un ruolo politico, sociale e educativo fondamentale all’interno della comunità.

In sintesi, uno degli obiettivi principali di questi soggetti era quello di farsi portavoce del popolo; compito che gli artisti maliani continuano a portare avanti tutt’ora.

Tra i molti, possiamo citare: Ali farka Touré, il quale è stato responsabile della diffusione della musica blues in Mali e i cui testi parlano dell’importanza di preservare la tradizione attraverso l’evocazione di ritmi lenti e solitari.

Amadou e Mariam, due dei più importanti referenti dell’Afro Blues con una grande carriera e molteplici collaborazioni internazionali.

Il gruppo Tirawinen, i cui componenti fanno parte della tribù desertica dei Tuareg. I loro testi infatti parlano della frustrazione data da una vita nomade limitata dalle frontiere nazionali e circondata da conflitti e guerre continue. Essi, inoltre, Dopo il colpo di stato del 2012 si sono ritrovati in terreno neutro per pubblicare un progetto di protesta chiamato Music in exile che presentarono così:

“The most important message is that music has to be an element of union, or reconciliation, of peace and love, no matter the culture, language or religion. We want people to smile when they listen to our music, we want them to enjoy it.”

Ma di un’artista in particolare mi piacerebbe parlare. Il suo nome è Fatoumata Diawara, una giovane donna, con un sorriso pieno, accogliente ed una bellissima energia, conosciuta in tutto il mondo per la sua musica.

Diawara ha alle spalle una storia complessa: nata in un piccolo villaggio del Mali, nel momento in cui le era stato richiesto di sposarsi come da tradizione, ha deciso di opporsi e di partire da sola per seguire la sua passione per la musica, nonostante il disaccordo della famiglia ed i pesanti pregiudizi, riguardo il suo stato di donna africana, sopportati una volta in Europa.

Nel documentario la si vede sempre in compagnia della sua chitarra elettrica, che accompagna con una voce calda e impegnata. Infatti, i suoi testi vertono principalmente su temi controversi come la lotta alla circoncisione femminile, lo stato di clandestinità e la necessità di alcune donne africane di affidare i propri figli ad altre famiglie poco dopo averli partoriti, alle quali intima di guardarli negli occhi prima di lasciarli andare. Inoltre, come altre artiste connazionali, Diawara si batte per la ridefinizione dei ruoli di genere e per una cultura più egualitaria.

Nel complesso, il suo è un sound che mischia la tradizionale atmosfera maliana con sfumature jazz, folk e funk e che dona sempre una sensazione di pienezza, coinvolgimento e armonia.

Dunque, consiglio caldamente l’ascolto rilassato di canzoni come Bissa, Sowa, Nterini e di tutto l’album Fatou, oltreché la visione del documentario Mali Blues di Lutz Gregor, rigorosamente con un impianto audio che permetta di apprezzare gli splendidi bassi della colonna sonora!

Questi e altri musicisti, nonostante le avversità, continuano a mantenere viva la loro musica, dimostrandone l’importanza come mezzo di unione culturale e sociale oltre ogni etichetta.

Per loro la musica rappresenta tolleranza e coesistenza, qualcosa su cui dovremmo riflettere, oltre a renderci conto che la “banale” libertà di ascoltare musica, di suonare e ballare insieme non va mai data per scontata.

Peace

Federica Albo

Valentina ciao. Parlaci un po’ di te. Chi sei, quanti anni hai e come i definisci?

Ciao a tutti, mi chiamo Valentina, ma in molti mi conoscono come Ariel.

Ho 28 anni, sono originaria di un piccolo paese tra le campagne vercellesi, e sono una ballerina. Posso dire di aver sempre ballato, all’oratorio, a scuola, alle feste di paese. Verso i 14 anni ho conosciuto l’hip hop e qualche anno più tardi sono entrata in una scuola di danza. Non ho capito subito di voler davvero fare questo nella vita, ho continuato il mio percorso di studi in Economia e Marketing e solo dopo il mio ultimo anno di Università è stato chiaro ed evidente dentro di me che l’unica cosa che mi rendesse davvero felice e soddisfatta fosse ballare. In Italia ho avuto la possibilità di immergermi nella cultura hip hop e formarmi per anni all’interno della scuola IndipenDance di Chivasso ( Torino ), studiando molto e partecipando a battles, jams, eventi, concerti, condividendo giornate intere con tanti altri ballerini che mi hanno ispirato e motivato. Negli ultimi anni, dopo essermi trasferita a Parigi, ho avuto modo di conoscere un nuovo “mondo” , quello delle residenze, dei teatri, dei palchi, delle creazioni. Oggi lavoro in una compagnia con base a Parigi, ma che viaggia a livello internazionale. Non potrei fare a meno di entrambi questi universi, essenziali nella mia crescita artistica.

Qualche anno fa, dalla provincia di Torino, ti sei trasferita a Parigi. Per quale motivo hai fatto questa scelta? Com’è stata e com’è tutt’ora la tua esperienza in Francia?

Quattro anni fa, nell’estate del 2016, mi sono trasferita a Parigi. È stata una scelta guidata da diversi fattori, primo fra tutti la voglia di trovare la mia indipendenza. Avevo bisogno di conoscere la Valentina non più bambina, provare a me stessa che ce l’avrei fatta lontana da casa, dalla famiglia, dagli amici e dalle comodità. Questo forte desiderio unito alla consapevolezza di voler far della danza il mio mestiere ha fatto si che la mia meta fosse la capitale francese, una città riconosciuta mondialmente per il suo stretto rapporto con l’arte. In questi anni ho vissuto esperienze completamente diverse, ho lavorato come cameriera e come commessa per potermi mantenere, allenandomi nelle pause e nei giorni off, vivendo due vite in una, se non di più. Ci sono stati momenti molto duri in cui la stanchezza prendeva il sopravvento e iniziavo a chiedermi cosa stessi facendo, cosa volessi ottenere, ma Parigi è stata anche molto buona con me e parte delle risposte a queste domande le ho avute. Mi ritengo molto fortunata.

Fai parte di una crew molto forte, le Paradoxal. Raccontaci questa realtà.

Nel febbraio 2017, dopo la mia prima grande esperienza sul palco del Theatre Forever ad Amsterdam, entro ufficialmente a far parte della crew Paradox-Sal, con la quale ho iniziato a collaborare pochi mesi dopo il mio arrivo a Parigi. Una crew totalmente femminile, coreografata da Babson, ballerino e coreografo membro fondatore di Serial Stepperz e Wanted Posse Crew.

Paradox-Sal è una crew che esiste dal 2012 e ha visto un susseguirsi di generazioni di ballerine molto forti con personalità, stili di danza, background, origini e influenze differenti. Tutte queste particolarità sono legate insieme da un unico stile di riferimento che ci contraddistingue, la House dance e la House music. Oggi Paradox-Sal è a tutti gli effetti una compagnia riconosciuta, oltre che nell’ambito underground, anche nel mondo dei teatri a livello nazionale e internazionale, attualmente in tour con l’ultima creazione “Queen Blood” che ha riscosso un ottimo successo.

Che cosa ti manca dell’Italia?

L’Italia mi ha dato tanto, mi ha fatto scoprire questa cultura, mi ha formata e sarò sempre grata ai miei insegnanti e a tutte le persone che ho potuto incontrare sul mio percorso che mi hanno ispirata viaggio dopo viaggio, evento dopo evento. Porto con me tanti ricordi bellissimi. Ogni luogo e ogni persona ha avuto qualcosa di diverso da offrirmi e solo nello sperimentare “il nuovo” trovo la mia evoluzione. Ci sono tante cose che mi mancano ma allo stesso tempo so che queste mancanze mi hanno insegnato molto e hanno fatto emergere in me lati che altrimenti non avrei potuto conoscere. Mi manca poter vedere le persone che amo crescere, essere accanto ai miei amici, vedere i miei genitori diventare sempre più grandi. Tutti coloro che vivono fuori casa conoscono benissimo questa sensazione. Ma questo fa parte del gioco, un gioco fatto di tanti compromessi, tante privazioni ma se sei ostinato anche tante soddisfazioni.

Trovi ci siano Differenze tra la scena italiana e quella francese per quel che concerne il mondo della danza? Quali?

Non credo sia un segreto che la Francia sia molto più sensibile, rispetto ad altri Paesi, a tutto ciò che riguarda l’Arte e la Cultura, attraverso la tutela, l’incentivo, la promozione di questo settore che è considerato di grande importanza. E con questo parlo dell’arte in generale oltre che della danza.

Più nello specifico in Francia la conoscenza della cultura Hip Hop ha raggiunto, nel corso degli anni, un pubblico più ampio rispetto all’Italia, per diversi motivi: culturali, sociali, etc. Questo ha fatto si che oggi, ma non senza difficoltà, la cultura e la danza Hip Hop abbia raggiunto un riconoscimento maggiore, anche da parte di un pubblico meno informato.

Inoltre sono sempre più numerose le compagnie Hip Hop che vengono prodotte sui palchi dei teatri francesi e questo è possibile grazie ad un pubblico curioso, non per forza ottimo conoscitore del settore, ma semplicemente interessato e disposto a pagare un biglietto per poter passare una piacevole serata.

In Italia sarebbe bello educare le persone ad andare più spesso a teatro. Per primi i ballerini ma non solo, famiglie, bambini, anziani, gruppi di amici, questa enorme varietà è essenziale e contribuisce a far sì che la nostra arte possa continuare a vivere , evolversi ed essere riconosciuta al pari di altre realtà.

Sappiamo che ultimamente ti diletti con la pittura… ( hai anche esposto i tuoi lavori in una mostra); raccontaci cosa rappresenta per te e come hai cominciato.

La pittura è stata per me un’importante fonte di sfogo durante un lungo periodo abbastanza duro dell’anno 2019, in cui non potevo ballare a causa di un infortunio, e ha continuato ad accompagnarmi attraversando la quarantena e oltre. Non ho mai studiato arte, nonostante abbia sempre fatto parte dei miei interessi, non ho mai avuto la presunzione di definirmi pittrice perché di certo non lo sono. Ho iniziato semplicemente seguendo il mio istinto, senza prendermi troppo sul serio, mi ha fatto del bene, mi ha permesso di esprimermi ed è ciò di cui avevo bisogno in un momento in cui il mio corpo non mi permetteva di farlo. La definivo una sorta di terapia. Nel mese di settembre di questo anno ho esposto alcuni dei miei dipinti in una expo qui a Parigi, condivisa con una mia cara amica che fa splendide fotografie. Ci siamo divertite a metterci in gioco, senza porci obiettivi a lungo termine.

L’anno scorso hai avuto un infortunio. Hai voglia di raccontarci quel periodo? Dopo l’infortunio sei ritornata più forte di prima. E cosa ti senti di dire a tutti i ballerini che stanno vivendo lo stesso momento?

Nel gennaio del 2019, durante uno spettacolo mi sono rotta il legamento crociato anteriore del ginocchio destro. È stato uno shock. Avevo lasciato il lavoro per dedicarmi completamente alla danza, stavo preparando la “prima” ufficiale della creazione “Queen Blood”, sarei salita su uno dei palchi più importanti di Parigi e da lì sarebbe partita la tournée con la compagnia. Incasso il colpo, mi opero qui in Francia e inizio subito la riabilitazione che è durata quasi un anno. È stato un momento davvero brutto, fatto di infinite domande e poche risposte, insicurezze e perdita di punti di riferimento. Non sono di certo l’unica ad esserci passata, in molti mi capiranno, fa parte dei rischi del nostro mestiere e sono momenti che, col senno di poi e nella loro estrema crudeltà, trovano comunque modo di insegnarti qualcosa. Bisogna avere la forza e la serenità di accettare una situazione che non si può cambiare nell’immediato, ma ricordarsi che passerà, costerà tempo e dolore ma passerà. E non smettere di lavorare sodo per tornare più forti di prima.

Parlaci dei tuoi progetti futuri

Per ora mi dedico principalmente alla tournée “Queen Blood” con Paradox-Sal. Abbiamo la fortuna di avere molte date e in questo periodo non è per niente da dare per scontato. Ma sono sempre aperta ad ogni nuova esperienza artistica che possa arricchire il mio bagaglio.

Un messaggio che vuoi dare?

Il messaggio che vorrei dare è ben espresso in questa citazione: “Se i tuoi sogni non ti spaventano, è perché non sono abbastanza grandi.” Siate determinati, siate sognatori, siate sempre onesti con voi stessi, combattete per ciò in cui credete, non fermatevi davanti alle difficoltà. Credete in voi stessi e nel vostro istinto.


STUDIO21 PLAYLIST by Marco Cavalloro